La nascita della schiavitù di genere

Aurelio Di Matteo

Uno dei più importanti politologi degli Stati Uniti, a differenza della quasi totalità degli studiosi, ha evidenziato che quello che viene considerato nel processo storico dell’umanità l’inizio del “progresso” e della sua “civilizzazione” è, invece, l’inizio della progressiva perdita della condizione di uguaglianza tra i soggetti e dello sfruttamento gerarchico – soprattutto economico – dell’uomo sull’uomo.

Qual è questo inizio? Di certo la formazione delle Comunità stanziali ed organizzate. Insomma la fine del nomadismo migratorio e l’inizio delle formazioni statali. Una tesi già sostenuta nell’Ottocento del secolo scorso da un antropologo, ma con riferimento ad altro problema. Oggi è sostenuta in modo organico, con riferimento alla complessiva strutturazione della società, dal politologo James Scott nel bellissimo e documentatissimo testo Le origini della civiltà pubblicato da Einaudi. Peccato che nel libro manchi almeno un accenno alla contestuale nascita di una delle più gravi discriminazioni – anche globalizzata – la discriminazione di genere. In quello considerato il primo passo verso la “civiltà”, nel passaggio dalle comunità migranti a quelle “agricole”, alle comunità stanziali, in cui la schiavitù e lo sfruttamento degli animali addomesticati faceva tutt’uno con quella degli uomini e delle donne, è proprio lì, invece, l’inizio di processi “incivili”, emarginanti, gerarchizzati. Il tutto legittimato dalla nascita del diritto positivo. In particolare nasce la differenza di genere, la sottomissione della donna.

L’origine dell’odierno femminicidio e della pretesa della subordinazione della donna, alla pari di un “oggetto di proprietà”, è da ricercare nel protostorico passaggio dal nomadismo, in cui prevaleva la categoria del “comune”, alle cosiddette società “civili” e alle forme di una “democrazia” sempre più formale e solo recitata.

L’evoluzione economica e politica e particolarmente la struttura agricola, commerciale e politica, hanno posto fine al rapporto egualitario tra uomo e donna, che costituiva la vita nomade delle comunità protostoriche. La dualità scava una separazione insanabile e si presenta da questo momento con tutta la consistenza di “due mondi in presenza”, uno meno edificante dell’altro.

Nonostante la mancanza di documentazione scritta, è stato possibile con deduzioni molto verosimili ricostruire a grandi linee il mondo relazionale delle comunità protostoriche o primitive che dir si voglia. Ciò è stato possibile grazie alle scene della quotidianità riportate con affreschi e disegni sulle pareti di alcune caverne.

Oltre queste ingenue, ma espressive documentazioni pittoriche, importanti sono gli oggetti che gli scavi archeologici hanno consentito di rinvenire. Sono testimonianze che con sufficiente certezza sfatano il vecchio convincimento della distinzione di ruoli tra uomo e donna che le culture antiche ci hanno tramandato nei loro scritti, in particolare quello dell’uomo “guerriero” e della donna “casalinga”. Visione quest’ultima resa sacrale dalla concezione omerica e mitologica, prima, e dalle concezioni religiose ebraica, islamica e cattolica, dopo.

Sulla base dei recenti risultati delle ricerche è possibile sostenere che le comunità protostoriche non avevano stratificazioni sociali, ma sarebbero state caratterizzate dalla promiscuità sessuale e dalla comunità dei beni. Esse erano a struttura egualitaria in cui la donna svolgeva gli stessi compiti dell’uomo. Tali affermazioni possono trovare conferma dalle scene dipinte sulle pareti delle caverne nelle quali si vedono uomini e donne partecipare insieme alle azioni di caccia.

Non solo. Si può con quasi certezza ipotizzare che la donna ricoprisse un ruolo psicologico e morale privilegiato. Prova documentale di questa tesi sono le statuette preistoriche, raffiguranti figure con i tratti fisici femminili – pancia, fianchi, seno – molto accentuati. Grazie alla sua “capacità” di procreare, la donna sarebbe stata vista come essere eccezionale a differenza dell’uomo.

La moderna etnografia, studiando le comunità native delle isole Trobriand, ha potuto sostenere che la struttura di quelle società fosse non solo matriarcale, ma anche matrilineare.

Gli aborigeni negavano la paternità fisiologica e consideravano il rapporto padre-figlio come successione materna. Di qui la tesi secondo cui il matriarcato fosse tipico delle antiche società tribali e che solo in seguito siano prevalsi il patriarcato e la subordinazione della donna.

Lo stesso nomadismo delle antiche comunità tribali può facilmente far sostenere la tesi della compartecipazione, uomo-donna, alle medesime attività senza alcuna differenziazione determinata dalle diversità fisiologiche del sesso.

Indipendentemente dalla condivisione e certezza di tali tesi, sostenute da autorevoli studiosi e storici, e recepite anche dai fondamentali pensatori nel campo della psicoanalisi, un dato storico è fuori di dubbio.

Il passaggio dal diritto naturale a quello positivo, dalla promiscuità sessuale alla monogamia, dalla comunione dei beni alla proprietà privata, tipici tratti delle società patriarcali e contadine, è avvenuto nel momento in cui dal nomadismo protostorico e tribale si è passati alla stanzialità e, quindi, alla formazione dei villaggi e delle città.

Come dire che la distinzione di ruolo, con l’appropriazione del potere derivato dai processi economici, ha prodotto la differenza di genere, giustificata dall’elaborazione teorica della presunta differenza di natura e ancor più della “inferiorità” da questa derivante.

La trasformazione in società stratificate e diseguali, avvenne attraverso un processo sociale in cui la condivisione divenne baratto, il baratto divenne commercio e lavoro specializzato. Tutto ciò, di conseguenza, portò alla ricchezza e al potere individuale. Le comunità protostoriche dei nativi si distinguevano dalle nostre perché non presentavano nessuna forma statuale. In esse era assente qualsiasi forma di coercizione e in particolare di subordinazione della donna.

Il passaggio all’economia agricola con la costituzione dei primi agglomerati comportò un nuovo sistema di vita e produsse sostanziali cambiamenti nei rapporti umani. Il commercio e la difesa del territorio cominciarono a suddividere la popolazione tra chi deteneva la ricchezza e chi ne era privo, tra chi era addetto alla difesa o alla conquista e chi doveva provvedere alle attività domestiche.

All’interno di questa struttura economica e sociale era “inevitabile” che l’uomo usurpasse il potere e si interessasse della vita pubblica dalla quale la donna fu progressivamente esclusa.

È questa la risposta alla domanda: quando nasce il potere maschile, che ancora oggi detiene la sua invasività e con frequenza mostra il volto della violenza? Nasce con le forme di vita stanziali, con il processo di urbanesimo, con la sua organizzazione gerarchica, con il diritto pubblico, insomma con la politica e la formazione della polis. Insomma le disuguaglianze sociali, e di genere in particolare, nascono dalle prime forme di “appropriazione originaria”. Origini della civiltà? Certo, ma della civiltà del Capitale e dello sfruttamento, della disuguaglianza e dell’ingiustizia.