Scuola – Relazioni con esterno, autopoiesi in educazione fondamento di sopravvivenza antropologico-culturale
DS Michele Cirino
Ciò che sta accadendo a scuola , in questo presente senza durata, è l’abdicazione della riflessione nel suo ruolo di vigilanza di questa apertura al mondo esterno. L’imporsi di modelli di comportamento reattivi e spontanei, il diffondersi di un’anestesia empatica, il propagarsi di un sentimento di precarietà sostengono una relazione con l’ambiente largamente dominata dalle strutture inconsapevoli e inconsce della mente.
Dunque un presente che sta sacrificando la funzione ristrutturante, critica e introspettiva del pensiero, necessaria per distanziarsi dell’automatismo autopoietico – emotivo e cognitivo – e produrre aperture capaci di innescare intenzionali e consapevoli cambiamenti di valore.
Occorre allora un pensiero e una straordinaria volontà, per modificare le regole della nostra identità, protette dalla possente e predominante azione della nostra mente autopoietica. Un pensiero e una volontà che sappiamo vedere che possiamo mutare e transitare verso altre identità, senza perderci.
Una delle caratteristiche predominanti della mente umana è di essere un sistema autopoietico.
Un sistema vivente è autopoietico quando la sua relazione con l’ambiente è governata da un preciso scopo primario: il mantenimento della propria identità e della propria organizzazione (Maturana, Varela). Un sistema autopoietico tende ad automantenersi. La sua comunicazione con il mondo circostante elabora cambiamenti e trasformazioni in modo da rinnovare e sostenere la propria identità. Un esempio: ogni cellula ha una membrana che la distingue dal mondo esterno, che consente continuamente il passaggio di nutrienti e l’uscita di catabolizzati, all’interno della cellula avvengono migliaia di reazioni e trasformazioni, ma la cellula rimane sempre la stessa. Una cellula di fegato rimane, nonostante tutti i processi di trasformazione in cui è coinvolta, sempre una cellula di fegato, come una cellula di lievito rimane sempre una cellula di lievito.
Allo stesso modo, le trasformazioni che avvengono nelle caratteristiche psicologiche di una persona, nei suoi modi di pensare, di sentire e di adattarsi al mondo non sono il risultato di una relazione causa-effetto con ciò che le accade, non rispecchiano in modo lineare l’impulso e lo stimolo dell’ambiente con un equivalente e coerente reazione nei modi di essere. L’interazione con l’ambiente esterno è guidata da regole e processi di elaborazione che rinnovano e confermano i modi di essere che si sono costituiti. Tra ciò che si incontra e si percepisce e ciò che si vede effettivamente, si comprende e si pensa vi è un sistema neurale – la mente – che riproduce le regole, i presupposti, i preconcetti, le predisposizioni emozionali ed affettive che ha imparato a utilizzare e che le consentono di mantenersi in equilibrio.
Possedere una mente autopoietica aiuta a comprendere perché sia così difficile imparare dalle esperienze e quanto sia impervio cambiare, soprattutto quando l’esperienza che si vive entra in conflitto con l’identità, i bisogni e le paure che siamo abituati ad avere nel nostro cuore. E’ il nostro mondo psicologico che difende l’equilibrio della propria identità, anche a scapito del buon senso e della serenità. Vi sono persone che pur conoscendolo continuano in ciò che darà loro dolore. Vi sono comunità che pur subendo inganni, continuano a ripetere la stessa subalternità al loro oppressore. E’ il requisito della sopravvivenza. Ogni cambiamento possibile viene sottoposto alla legge della conservazione dell’equilibrio del sistema di modalità identitarie che il nostro cervello sente la necessità di proteggere.
La nostra spontaneità è l’espressione più evidente di questa auto-organizzazione neuronale, che media ed elabora il mondo esterno, con il suo potenziale di cambiamento. Nella spontaneità gran parte delle attività neurali – cognitive ed emotive – sono affidate a un funzionamento inconsapevole e automatico di procedure cerebrali. Questo assicura una mediazione tra i fatti e gli accadimenti con cui si è in relazione e la salvaguardia di modelli di percezione e di pensiero imparati. Nella spontaneità si vede e si pensa ciò che è coerente con ciò che si è imparato a vedere e pensare. La spontaneità garantisce un equilibrio identitario con la realtà.
Eppure avviene del cambiamento, i modi di vivere, di sentire, di amare e di pensare mutano. Come pure è facile trovare invece continuità e modi d’essere, bisogni, modalità di comunicare e di pensare, che rimangono invariati nell’identità di una persona, nonostante le innumerevoli esperienze che potrebbero stimolare un cambiamento.
Come dunque ottenere un cambiamento, non solo quando la nostra mente lo consente, non ritenendolo dannoso per il suo equilibrio? Come può dunque cambiare, ad esempio, un animo vittimista, quando il suo vittimismo, pur doloroso, è il suo modo di essere in equilibrio, che consente di prevedere e conoscere perfettamente il mondo che si incontrerà?
Luhmann ricorda che ogni identità costituisce la propria vita nella delicata dialettica tra essere aperta o chiusa nello scambio con l’ambiente. Tanto più un sistema è aperto al mondo circostante, tanto più riceve stimoli e informazioni che può rielaborare in decisioni, azioni e prodotti. Allo stesso tempo un eccesso di apertura diventa distruttivo, produce paralisi e smarrimento. Ad esempio, è provato dalla ricerca neurologica che quanto le persone si trovano a dover affrontare un numero elevato di alternative nella presa di decisioni aumenta lo stato di stress e di malessere emozionale. Sicché, quando la complessità dell’ambiente, la sua caoticità, la sua imprevedibilità diventano illimitati la mente e il suo sistema neurofisiologico deve mettere in atto strategia di sopravvivenza appropriate, strategie che quindi contengono e limitano sofferenze e sentimenti di perdita di controllo e paralisi. Ogni individuo per esistere produce una chiusura operativa necessaria a tracciare un confine fra l’enorme massa degli stimoli e l’elaborazione di quelli necessari alla sopravvivenza e alla conservazione di un’identità.
Dunque ciò a cui si rimane aperti e ciò a cui ci si chiude costituisce una condizione fondamentatale nelle possibilità di cambiamento. Tanto più la chiusura è selettiva e grossolana, tanto meno si riceveranno stimoli e contenuti capaci di innescare processi di cambiamento e di ristrutturazione della relazione di equilibrio con l’ambiente, presidiata dalle logiche autopoietiche.
Il termine “autopoiesi” è stato coniato nel 1980 dai biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela a partire dalla parola greca “αὐτό” (se stesso) e “ποίησις” (creazione). Un sistema autopoietico è in grado di ridefinire continuamente se stesso, sostenendosi e riproducendosi al proprio interno. Può quindi essere rappresentato come una rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione di componenti che, interagendo fra loro, rinforzano e rigenerano all’infinito il medesimo apparato: il dominio di esistenza di un sistema di questo tipo coincide con il dominio tipologico delle sue componenti.
Secondo il biologo e naturalista Charles Darwin, l’autopoiesi descrive un processo evolutivo in cui l’ambiente esterno influenza le qualità di un organismo ma non ne determina lo stato: i geni forniscono i valori parametrici che possono produrre forme diverse, ma non rappresentano le dinamiche in campo evolutivo; le influenze ambientali ed ereditarie agiscono sul campo generativo per stabilizzare o selezionare particolari soluzioni che danno vita ad un altrettanto specifica morfologia. Esiste un confine preciso fra l’assetto organizzativo interno e l’ambiente circostante, sebbene gli scambi di energia e materia fra sistemi autopoietici e ambiente siano costanti. Ciò significa che il sistema è in grado di discriminare tra cause interne e cause esterne: l’autopoiesi riguarda esclusivamente la produzione degli elementi che garantiscono la sopravvivenza del sistema. I connotati che avrebbero indotto il declino del sistema possono, o determinarne effettivamente la morte o rinforzarne i funzionamenti attivando una specifica resistenza. Maturana e Varela affermano inoltre che una tale “chiusura operativa” non ha né particolari input né output: il sistema è, a partire dai suoi elementi di base non ulteriormente scomponibili e/o convertibili, totalmente determinato dalle proprie strutture e completamente autonomo dall’ambiente esterno.
L’individuo stabilisce la propria identità in contrasto con l’ambiente esterno determinando le regole di transizione della propria grammatica interna: è sia un sistema aperto, sia un sistema chiuso dal punto di vista organizzativo-strutturale. In altri termini, esso scambia informazioni e interagisce con l’ambiente (fisico ma soprattutto sociale, culturale e politico), ma la progettazione interna delle relazioni fra obiettivi e stati d’animo non è in alcun modo predeterminata, in quanto nella produzione e trasformazione dei fattori cognitivi ed emotivi, sui quali si basa l’intero processo decisionale, l’individuo fa essenzialmente riferimento a se stesso ed alla rappresentazione che col passare del tempo ha elaborato della propria persona. I cambiamenti decisionali nascono come semplici stimoli esterni (ora storici e sistemici, ora informazioni descrittive tipiche di un contesto) ma sono poi elaborati dalla struttura cognitiva-affettiva. Tali percezioni non si possono quindi considerare una rappresentazione oggettiva della realtà esterna ma occorre intenderli come la creazione continua di nuove relazioni della struttura interna dell’individuo: la relazione causa-effetto non opera tra eventi ed eventi (tra informazione oggettiva e comportamenti), ma tra percezioni (elaborazioni puramente arbitrarie) e comportamenti.
In definitiva, le strategie d’azione sono determinate dalla personale visione che un individuo ha della realtà, la quale a sua volta viene “specificata” attraverso il processo di organizzazione autopoietica dagli schemi affettivi e di apprendimento. Non a caso un sistema cognitivo può essere definito intelligente se, con azioni svolte dagli effettori, riesce a tradurre in simboli (segni, linguaggi e modelli) la propria esperienza, attuando descrizioni formali (trasmissibili tramite un comportamento linguistico, così che entrino, a loro volta, a far parte dell’ambiente consentendo nuovi accoppiamenti strutturali) con cui arricchire all’infinito i propri contenuti mentali. Ne deriva quindi che una condizione necessaria e sufficiente perché un sistema cognitivo sia definito intelligente è che esso sia autopoietico ovvero in grado di sviluppare un comportamento comunicativo formale con il quale costruire rappresentazioni del mondo utilizzando segni convenzionalmente accettati come significativi e porre in essere una relazione con altri sistemi sviluppati.
Tra mente e corpo
Le reti autopoietiche, pur essendo chiuse, non sono statiche e immutabili. L’autopoiesi è un’organizzazione circolare, ossia è composta da anelli di retroazione dove ciascun componente è allo stesso tempo causa ed effetto di tutti gli altri. Pertanto, una variazione nell’interazione fra due componenti, genera una trasformazione della rete stessa. L’autopoiesi dunque, adattando la propria struttura a seguito delle sollecitazioni esterne, rappresenta la “plasticità” di un organismo. Questo meccanismo dimostra che una determinata informazione viene interpretata e rappresentata mediante il processo di astrazione cognitiva fino a modificare le relazioni di circolarità causale che uniscono le componenti del sistema, andando così a definire l’interessamento per un determinato contesto sociale. Maturala e Varela inoltre, affermano che l’informazione non è prestabilita come un ordine intrinseco, ma come un ordine emergente delle stesse attività cognitive: la cognizione è l’avvenimento congiunto di un mondo e di uno spirito a partire dalla storia delle diverse azioni che porta a termine un essere nel mondo. Il centro del processo cognitivo non è solo la mente ma la mente dentro al corpo.