Scuola: centralità curricolo verticale per continuità didattico-educativa Primaria e Secondaria

Scuola: centralità curricolo verticale per continuità didattico-educativa Primaria e Secondaria
Dirigente Solastico Michele Cirino
E’ opinione diffusa che il tema della continuità verticale rappresenta uno dei nodi fondamentali per il successo scolastico. L’attuazione delle sue finalità e dei suoi obiettivi deve garantire a tutti gli studenti il diritto ad un percorso formativo organico e completo, che mira a promuovere uno sviluppo articolato e multidimensionale di tutti gli studenti, i quali, pur nei cambiamenti evolutivi e nelle diverse istituzioni scolastiche, costruiscono la loro particolare identità. Una corretta azione formativa, infatti, richiede un progetto continuativo e cooperativo tra scuola primaria e scuola secondaria di primo grado, in quanto è in esse che si svolge essenzialmente il processo di alfabetizzazione (strumentale e culturale). Per la sua realizzazione rivestono, dunque, un’importanza cruciale la problematizzazione e la progressiva armonizzazione delle concezioni e strategie didattiche, degli stili educativi e delle pratiche di apprendimento-insegnamento ivi attuate. Indispensabile è, quindi, una approfondita conoscenza reciproca dei programmi nazionali, come base per azioni formative coordinate, da conseguire anche attraverso esperienze comuni di formazione in servizio. Si precisa, poi, che la continuità del processo formativo non significa né uniformità né mancanza di cambiamento: consiste piuttosto in un percorso formativo ed è uno sviluppo coerente, che valorizzi le competenze già acquisite dagli studenti e riconosca la specificità e la pari dignità di ciascun ordine di scuola nella dinamica della diversità del loro ruolo e delle loro funzioni. Del resto non può essere diversamente se si considerano gli studenti portatori di esperienze, storie personali e concetti e se si ritiene che l’azione didattico-educativa, all’interno di relazioni sociali facilitanti e di un ambiente di apprendimento organizzato intenzionalmente dagli insegnanti, deve porre le condizioni, affinché tutti gli studenti siano sempre costruttori attivi delle loro competenze, anche grazie a forme di responsabilizzazione via via crescenti. Da queste premesse si evince un’idea di continuità che assicuri a tutti gli studenti la costruzione della loro identità; snodandosi lungo tutto l’arco della scolarità, essa deve muoversi su più versanti con interventi di prevenzione, di sviluppo e di progettazione di itinerari curricolari articolati, organici, condivisi, armonizzati nelle metodologie didattiche e nelle pratiche di apprendimento- insegnamento. Un modello quindi dinamico e flessibile, teso a raccordare e cementare le esperienze effettuate da tutti gli studenti durante il loro percorso di formazione scolastica. Bisogna, però, precisare che lavorare sul curricolo verticale è un’operazione complessa, che comporta un impegno costante e luoghi appropriati (laboratori), destinati alla progettazione, sperimentazione, ricerca e sviluppo. Per realizzare questo tipo di impegno, occorre prendere in esame (rivisitare, ridefinire, riaggiornare, ecc.) alcuni fondamentali aspetti del curricolo, condividendone i requisiti generali. Riguardo agli aspetti costitutivi del curricolo prioritaria è la riflessione sul cosa e sul come si insegna, anche se l’ambiente (spazi/contesti) in cui si insegna e gli strumenti che si utilizzano non sono marginali. In relazione all’individuazione dei saperi essenziali e significativi si invita a scegliere e concentrarsi con criterio, ad insegnare alcune cose a fondo, non molte cose e superficialmente. Si propone un profondo ripensamento dei saperi, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. E’ evidente che, se non ci si concentra su una minore quantità di saperi, non è possibile realizzare nessuna innovazione metodologico-relazionale (cioè curricolare), ma il nodo fondamentale del rinnovamento del curricolo più che l’aspetto quantitativo è quello qualitativo. Difatti quest’ultimo non si risolve con interventi di semplificazione della struttura (organizzazione o canone) tradizionale del sapere nei vari ambiti disciplinari, che corre spesso il rischio di trasformarsi in una banalizzazione. Richiede ben altro, come la definizione dei contenuti irrinunciabili che tutti gli studenti devono possedere, avendo l’obiettivo di sviluppare non tanto competenze minime, quanto essenziali e generative di altre conoscenze/abilità/strategie, atteggiamenti. Ciò comporta garantire a tutti gli studenti: il possesso di contenuti fondamentali, attorno ai quali avviare una graduale articolazione delle conoscenze; la padronanza di abilità strumentali e procedurali tali da consentire lo sviluppo progressivo di strategie di controllo del loro apprendimento; l’adozione di atteggiamenti/orientamenti consapevoli e responsabili in grado di accrescere il loro desiderio di apprendere. Sviluppare simili competenze impone indubbiamente un problema di scelte culturali (saperi essenziali e generativi in vista della costruzione dell’edificio del sapere), ma queste devono identificarsi con saperi capaci di dialogare con i bisogni di tutti gli studenti, bisogni che non sono occasionali e fittizi o indotti da altri, ma profondi, radicati nella sfera del sé (sociale, psicologico, comunicativo, cognitivo). Molti di questi investono la crescita complessiva, che abbisogna di una varietà di strumenti per conoscere, interpretare ed affrontare il mondo. Ne consegue che la significatività di un sapere non si esaurisce in un lavoro di puntuale ricognizione delle questioni cruciali, teso ad inibire il potenziale formativo e la presunta dignità culturale di una determinata disciplina (significatività epistemologica). Aspetto questo ineliminabile, ma che non basta a renderlo significativo per soggetti in formazione. Occorre individuare un’altra significatività (psico-pedagogica) che si raggiunge quando si riescono a stabilire, tramite il sapere, canali di comunicazione con coloro che apprendono (saperi relazionali), sì da attivare forme di comprensione profonda, che concorrono allo sviluppo di capacità autonome di ragionamento sulle questioni affrontate. Quindi la significatività, di cui si parla, nasce, si costruisce e si alimenta nel dinamico e concreto rapporto con le diverse soggettività, interagendo con i vissuti/contesti dei bambini/ragazzi, con le loro intelligenze multiple, cognitive e socio-affettive e con gli strumenti concettuali e mentali acquisiti. Obiettivo questo realizzabile se le proposte culturali tengono conto delle strutture cognitive, psico-affettive, comunicativo- relazionali di tutti gli studenti e dei loro retroterra socio-culturali, offrendo a tutti l’opportunità di misurarsi nella conquista della conoscenza. Si tratta di una rivoluzione copernicana che, nonostante i numerosi progetti, è tutta da attuare. Significatività ed adeguatezza si raggiungono se i paradigmi culturali vengono declinati dentro gli universi di tutti gli studenti, che si dotano così anche di pregnanza valoriale, oltre che conoscitiva. Quest’orientamento implica una riconfigurazione dello statuto epistemologico delle discipline in un orizzonte non più specialistico, la cui significatività discende dal rispetto di un doppio vincolo: culturale e comunicativo-relazionale. Si tratta certo di un’operazione complessa che investe più versanti (epistemologico, psico-pedagogico, comunicativo-relazionale), accomunati tutti dalla necessità di ristrutturare i modelli disciplinari per collocarli, nelle varie fasi di scolarità, secondo criteri di progressione. Ciò comporta dosare le conoscenze alle varie età, sviluppando gradi differenziati di concettualizzazione e relazione e gestendo, in maniera organica e produttiva, quelle discontinuità che generano il cambiamento. In sintesi il lavoro sul cosa rimanda ad una radicale destrutturazione e riorganizzazione dei saperi, modificandone la struttura accademica e specialistica. Per il come si insegna fondamentale resta l’adozione di una didattica capace di porre al centro gli studenti che apprendono, tenendo conto dei diversi contesti culturali, delle competenze, disposizioni, attitudini ed, in particolare, dei loro bisogni. In riferimento a questi ultimi è opportuno sottolineare che non sono solo e soltanto aggregazioni di interessi, ma scaturiscono da una pluralità di dimensioni (cognitiva, relazionale, rappresentativa, creativa e culturale). E’ con queste che una didattica attenta a tutti gli studenti deve confrontarsi, mostrandosi interessata a coinvolgerli direttamente nella costruzione della conoscenza. Basilare, quindi, è la pratica di una didattica costruttiva, fondata su una logica ermeneutica di ricerca, di messa in comune delle conoscenze, che valorizzi la classe come ambiente corale e di spazio comunicativo-relazionale. Uno spazio fisico e mentale in cui i bambini/ragazzi sperimentano in azione la conoscenza, agiscono ed operano, assumendo dietro la guida degli insegnanti, atteggiamenti osservativi e riflessivi, comparativi e risolutivi di problemi e fenomeni di varia natura. Si tratta di una pratica laboratoriale da applicare in maniera sistematica e non marginale. Va da sé che la didattica laboratoriale rimanda a continue scelte culturali motivanti e funzionali all’apprendimento. E difatti l’intreccio costante tra questi due aspetti del curricolo (didattica laboratoriale costruttiva ed oggetti culturali adeguati alle diversità degli studenti che apprendono) che sviluppa competenze significative e, conseguentemente, contribuisce a formare quell’intelligenza lineare, sequenziale che l’insegnamento esplicativo di un tempo produceva negli studenti selezionati (scuola di élite). Tuttavia la realizzazione di questa relazione indissolubile tra il come ed il cosa è possibile, se si mette a punto un piano organico, corredato da atteggiamenti sistemici e ricorsivi (non esaustivi), aperto ad attività che possono svolgersi secondo logiche in parte imprevedibili. Altrimenti si corre il rischio di cadere nel primo caso in un disciplinarismo essenziale minimale, che non migliora le sorti dei più, nell’altro in forme attivistiche, frammentarie e dispersive che non costruiscono alcuna competenza.
A questo punto viene da chiedersi quali possono essere le caratteristiche di simile didattica. Alcune componenti principali investono la ricerca, l’operatività e la creatività che ricoprono una funzione dominante non tanto per trasmettere, quanto per produrre sapere. Per ricerca si intende uno spazio mentale di investigazione di nuovi circuiti interpretativi (ricerca sperimentale/descrittiva, di documentazione, di rielaborazione) in cui gli studenti, coinvolti in situazioni d’uso, imparano, da apprendisti ricercatori, certi contenuti; apprendono a fare, a riflettere ed a modificare quanto appreso e fatto, dietro la regia degli insegnanti che, ponendo i bambini/ragazzi in rapporto con una cultura debitamente ridefinita, fanno vedere come si fa ricerca. L’obiettivo è di fornire strumenti di scoperta e di indagine del reale e, quindi, di costruzione di rapporti e di comportamenti in essi. Si è di fronte ad una ricerca non ingenua o spontaneistica condotta solo e soltanto dai bambini/ragazzi, ma regolata dagli adulti, i quali avviano gli studenti a pratiche improntate ad una logica ermeneutica del sapere. Mentre l’operatività investe il fare, l’agire in contesto e l’apprendere facendo, tramite la costruzione negoziata dei significati che producono i nuovi contenuti culturali. L’operatività indicata non è fine a se stessa (tante attività motivanti, tuttavia disarticolate e frammentarie), ma finalizzata a produrre conoscenze ed atteggiamenti (operatività fisica e mentale) attraverso l’attivazione di concettualizzazioni /schemi mentali, di riflessioni e consapevolezze sia nella relazione cognitiva che socio-affettiva. Infine la creatività offre, sulla base di vincoli e tramite modalità plurime di produzioni individuali e di inventiva, l’opportunità di sperimentare nuove vie conoscitive, sviluppando capacità di trasformazione, della loro esperienza antropologica, psicologica ed ideativa.
Tuttavia queste tre componenti ne richiedono altre, di pari rilevanza ed anch’esse indispensabili, per realizzare una didattica laboratoriale. E le si riporta in sintesi: la contestualizzazione e l’apprendere in contesto, la costruzione negoziata dei significati, la metacognizione, la ricorsività poliprospettica, la cooperazione/distribuzione/alternanza dei ruoli, l’autovalutazione e la pluralità di forme di valutazione. Si constata, però, che coloro che si occupano del tema della continuità verticale, ritengono secondario puntare sull’elaborazione di curricoli unitari e coerenti, capaci di incrementare il cambiamento, le trasformazioni che accompagnano gli studenti nell’acquisizione di conoscenze e di abilità. Carente e riduttivo è l’aspetto didattico, poiché molte scuole si concentrano prevalentemente su segmenti di curricolo per le classi ponte o limitate a somministrare test, prove di verifica e questionari, stabilendo rapporti sporadici tra insegnanti, senza profilare concrete proposte in verticale. In pratica si realizza una sorta di continuità dimezzata, che necessariamente trascura quegli aspetti di discontinuità che condizionano l’apprendimento in momenti cruciali di crescita complessiva dei soggetti in formazione. Ragionare sulla dimensione verticale del curricolo richiede certo chiarirsi il modello pedagogico di riferimento (quale curricolo?), ma al contempo significa prendere in esame le discontinuità, cioè quegli snodi/discostamenti dalla norma, che si generano lungo il cammino della scolarità, deputati a favorire la crescita umana e culturale di tutti gli studenti. Le discontinuità investono sia l’apprendimento (le rotture culturali rispetto agli schemi mentali ed alle rappresentazioni degli studenti, ai modelli noti o ai concetti comuni, agli usi familiari/esperienze personali) sia l’insegnamento (rotture epistemologiche che introducono ed affermano livelli di concettualizzazione o formalizzazione sempre più raffinati, originali e spesso rivoluzionari). Frequenti sono difatti le difficoltà, che gli insegnanti incontrano nell’affrontare passaggi cruciali (astratti, formali) e nel gestire le conflittualità (cognitive, socio-affettive e comunicativo- relazionali) che si profilano. Non di rado si interrogano su come fare, tenendo conto degli schemi mentali degli studenti, delle loro rappresentazioni, dei modelli a loro noti, dei concetti comuni, degli usi familiari e delle esperienze personali.
Questi problemi, come altri della stessa natura, che inevitabilmente si verificano in situazioni di apprendimento, implicano una gestione non casuale, ma ancorata ad un piano unitario ed organico, da cui si evinca la progressione propulsiva nello sviluppo di fatti, idee e del contenuto intellettivo delle esperienze. Se si riesce a ben calibrare le discontinuità, assumendo un’impostazione processuale che presti attenzione ai modelli culturali proposti ed alle caratteristiche delle nuove generazioni (stili di apprendimento, valori e modelli), si producono cambiamenti significativi (cognitivi, socio-affettivi, comunicativo-relazionali), altrimenti si creano vistosi problemi, derivanti dalla difficoltà a controllare (comprendere, produrre, ragionare) livelli concettuali/formali complicati e sempre più sofisticati. La verticalità è, quindi, un processo complesso che accoglie elementi di continuità e di discontinuità, che richiedono di essere affrontati in un quadro strutturato, aperto al cambiamento. E gli articoli n° 2, 3 e 6 del regolamento dell’Autonomia, spesso inapplicati, prevedono l’attivazione della ricerca, sperimentazione e sviluppo nella Scuola, offrendo la possibilità di costruire veri e propri laboratori di ricerca, dove si elaborano, in piena indipendenza e dignità culturali, modelli di indagine e di sperimentazione, soprattutto legati al curricolo, cuore dell’autonomia didattica. Per rendere operativi gli articoli in questione, bisogna, però, creare condizioni che ne sollecitino la pratica, definendo in primo luogo il tipo di ricerca, una ricerca però che sia adatta alla Scuola in grado di raccordare teoria e pratica in vista delle esigenze di formazione, i cui attori, impegnati attivamente e responsabilmente in questo raccordo, sono gli insegnanti. Tuttavia nella Scuola non esiste generalmente una tradizione in tal senso, per cui, nonostante i regolamenti esistenti, raramente gli insegnanti, coinvolti in tante altre attività (progetti, commissioni, ecc.), sono propensi a mettersi in ricerca di soluzioni idonee: alcuni si rifugiano in quella universitaria, considerandola sufficiente, altri la temono od, addirittura, ostacolano chi la pratica. Ma la normativa riconosce alla Scuola questo diritto, un diritto che oggi più che mai richiede di essere esercitato, soprattutto da chi è interessato. E, quando si parla di ricerca, non ci si riferisce a quella universitaria, di primo grado, ma ad una ricerca di secondo grado, che, attingendo a quella speculativa ed accademica, sia capace di elaborare modelli in funzione dei bisogni e delle prospettive della Scuola. Finalizzata ad operare quei delicati passaggi tra teoria e pratica e viceversa, caratterizzanti la cultura della Scuola, essa deve permettere di sviluppare, in un contesto di partecipazione, di cooperazione e di riflessione, tematiche curricolari prioritarie, configurandosi quindi come una ricerca che, prendendo l’avvio dalle situazioni reali della Scuola/classe progetti, sperimenti, monitori, esplori, verifichi e documenti. Fra i diversi obiettivi preminenti diventano quelli rivolti a: sviscerare problemi/questioni legati soprattutto ai processi di apprendimento-insegnamento (ricerca contestualizzata), mirando a stilare repertori di percorsi curricolari, legati ai diversi ambiti; sperimentare e verificare in un clima di cooperazione, dove indispensabile risulta la partecipazione di quegli insegnanti che condividono la scelta dell’oggetto della ricerca e degli strumenti di osservazione (ricerca cooperativa e partecipata). Si è di fronte ad una ricerca curricolare che è interessata ad: osservare, capire e ragionare intorno alla natura dei processi più dei prodotti; agire per reinventare sul piano dell’approfondimento teorico, della rielaborazione progettuale e sperimentale; documentare, con una varietà di strumenti, processi e risultati, per socializzare, ritornare a riflettere ed apportare cambiamenti; programmare fasi di lavoro con l’indicazione dei tempi, degli strumenti (soggettivi ed oggettivi), delle sequenze d’uso e degli obiettivi da raggiungere (ricerca empirica, operativa, problematica, riflessiva, documentaria). Con queste modalità di ricerca, che privilegiano la dimensione qualitativa dei fatti esplorati ed adottano pratiche di analisi e di valutazione di tipo interpretativo, irrinunciabile è il passaggio all’azione ed alla rivisitazione dell’operato svolto in vista di una comprensione profonda e di una progettazione futura e/o consolidamento di ciò che ha funzionato. Quest’operazione innesca una riflessione reiterata in maniera ciclica che, supportata dalla documentazione, pone gli insegnanti in una condizione di esplorazione di loro stessi, contribuendo a renderli più consapevoli delle loro scelte e degli effetti sulle classi o sui singoli studenti. Difatti la pratica di questo tipo di ricerca rappresenta un’occasione per migliorare non soltanto la prassi didattica ma anche la professionalità insegnante. Grazie all’attivazione, nei comportamenti e nelle mentalità degli insegnanti, di predisposizioni al cambiamento, si produce un mutamento di prospettiva nel modo di formare e di formarsi, assegnando così agli insegnanti una nuova professionalità, quella dell’insegnante-ricercatore, che fa ricerca (singolarmente od in gruppo) sulla base di progetti condivisi, in luoghi (dipartimenti disciplinari, laboratori didattici, ecc.) istituzionalmente riconosciuti (sul piano giuridico ed economico): una ricerca che, esercitandosi in azione, si può trasformare anche in buona pratica. Per realizzare questa modalità di ricerca, fatta dagli insegnanti per gli insegnanti, è indispensabile istituire dei laboratori di ricerca e di sperimentazione permanenti, in cui gli insegnanti si confrontano, si mettono in relazione, individuano problemi/temi, pianificano ipotesi di lavoro e definiscono interventi in coerenza con quanto stabilito.
Compito dei laboratori non è tanto l’aggiornamento sulle discipline (per questo esistono altre strutture), quanto quello di contribuire, in maniera determinante, a costruire il curricolo della Scuola relativamente alle varie discipline, responsabili in gran parte dell’insuccesso scolastico. L’organizzazione delle attività di ricerca nei laboratori, scansionata in differenti fasi (progettazione, sperimentazione, ricerca operativa, monitoraggio, valutazione e documentazione) e coordinate da uno o più responsabili, prevede un’articolazione in aree disciplinari, guidate dai dirigenti scolastici della scuola primaria e di quella secondaria di primo grado, che svolgeranno diverse funzioni (esperto-ricercatore, tutor, counselor, ecc.) a seconda dei bisogni formativi. Ed i tempi saranno distesi lungo tutto l’anno scolastico (un incontro al mese) ed i risultati del lavoro socializzati (autovalutazione). Ed, in questo contesto, bisogna collocare la funzione della formazione in servizio, una formazione continua e produttiva, che non deve ripercorrere le strade degli aggiornamenti del passato, ma deve essere prevalentemente concepita come attività di progettazione curricolare, sperimentazione, di riflessione e di rielaborazione nei laboratori per aree, in cui gli insegnanti della scuola primaria e di quella secondaria di primo grado sappiano trovare il giusto punto di connessione in attesa di programmi coordinati, sistematici, organici ed unitari, che abbiano una visione complessiva e ad ampio respiro della Scuola, da quella dell’infanzia a quella secondaria superiore di secondo grado. Solo e soltanto in tale maniera la Scuola può dirsi degna di un proprio ed altrui “progetto di vita”, che deve trovare la propria esplicitazione in precisi e dettagliati protocolli di intesa, convenzioni ed accordi formali, documenti che potrebbero anche aprirsi al contributo dei genitori, enti, associazioni della realtà locale più sensibili al dialogo didattico-educativo nel quadro di un autentico ed effettivo sistema formativo integrato, venendo così incontro ad uno degli obiettivi del Piano di Miglioramento (integrazione con il territorio e rapporti con le famiglie), che tanto sta a cuore a qualsiasi dirigente scolastico, soprattutto alla luce di quanto emerso durante la prima riunione di quest’anno scolastico in merito al Rapporto di Autovalutazione di Istituto. Pertanto puntare sulla “continuità” verticale tra scuola primaria e quella secondaria di primo grado, allargata, se è possibile, a figure ed Istituzioni del contesto ambientale, equivale a garantire “continuità” di azione didattico-educativa ed organizzativo-gestionale di qualunque Scuola davvero intenzionata al suo radicamento burocratico-formativo. L’educazione permanente per un nuovo Umanesimo Le direttrici culturali dell’educazione permanete vanno continuamente riscoperte, anche dando effetto a letture che sanno coniugare le visoni del futuro per riallocando nelle tradizioni della letteratura scientifica passata. Ecco perché la sintesi dei pensieri contenuti ne “Il nuovo Umanesimo” riattivano il pensiero ancora prolifico di Jaques Delors de “ Nell’educazione un tesoro”, grande metafora della comunità che educa.
Qui in estrema sintesi alcuni passi di interesse, ma il rimando è quello di riservarsi un prezioso tempo per una serena lettura – o rilettura- nella convinzione che l’azione che quotidianamente come operatori di settore implementiamo nel contesto professionale ne possa uscire nutrita, corroborata e riqualificata. Negli anni ’90 Delors tracciava un’ architettura educativa basata su quattro pilastri: la conoscenza, il saper fare, il sapere essere, e la competenza democratica. In particolare teorizzava quattro azioni tra cui: a) imparare a conoscere ( la creazione di un ponte per l’educazione permanente che genera cultura vasta e lo studio significativo delle materie di cui si compone il sapere); b) imparare a fare (passaggio dal concetto di abilità a quello di competenze e la possibilità di alternare scuola e lavoro per creare un sapere significativo); c) imparare ad essere ( richiamo delle raccomandazioni contenute nel Rapporto Faure Unesco del 1972); d)imparare a vivere insieme ( sviluppare la conoscenza di popoli, di storie, di tradizioni per creare una nuova mentalità finalizzata alla realizzazione di progetti comuni con composizione dei conflitti pacifica ed intelligente). (2) Da lì in poi le varie raccomandazioni internazionali hanno tracciato sentieri chiari, lungo i quali il percorso dell’educazione permanete è diventato sempre più visibile e strutturato. Ma oggi, nella complessità del post moderno e con l’ urgenza incessante del sapere contemporaneo è opportuno ridescrivere questa architettura, riconsegnando all’Uomo un posto di primo piano. “ Non è un caso che oggi si parli di un nuovo Umanesimo: perché l ‘Umanesimo ridiventa attuale ogni volta che si riapre l’interrogazione sulla condizione dell’Uomo” . E ancora “ si è sempre interrogato, secondo una pluralità di punti di vista in maniera profonda sulla condizione umana, sul destino dell’uomo; ed è tornato attuale ogni volta che si è riaperto, in modo drammatico questo problema(…).Crisi e renovatio, si è detto e conviene ribadire: l’originalità , la forza ed anche l’attualità dei più grandi pensatori del Rinascimento sta nell’intrecciare questi due momenti: una considerazione della realtà per quello che essa è, con uno sguardo freddo, addirittura sarcastico; la capacità di non cedere all’esistente, proponendo nuove prospettive politiche, religiose artistiche, salendo senza timore anche nella dimensione dell’utopia, del mito , perfino del sogno”. (2) L’educazione permanente non può non interrogarsi, oggi, sul valore dell’Uomo come sintesi degli elementi di persona e storia. E’ con la riscoperta della dimensione esperienziale biografica e con la ricollocazione intellettuale del sapere, saper fare e del sapere essere nella dimensione dell’educazione per la vita e lungo la vita, che si riscopre la linfa nuova delle azioni del life long learning. La praxis dell’Umanesimo si congiunge metaforicamente alla quarta colonna di Delors: la composizione dei conflitti attraverso la reale capacità di costruire un sistema di convivenza significativa. Un Homo faber fortunae suae. “La nozione di istruzione e formazione permanente non rappresenta più semplicemente un aspetto della formazione generale e professionale, ma deve diventare il principio informatore dell’offerta e della domanda in qualsivoglia contesto dell’apprendimento (…)Perché un simile dibattito è tanto urgente, perché la messa in pratica dell’istruzione e della formazione permanente rappresenta una priorità massima per l’Unione europea? Due sono le ragioni, di pari importanza: in Europa è in atto una rapida evoluzione verso una società ed un’economia basate sulla conoscenza. Oggi più che mai, l’accesso ad informazioni e conoscenze aggiornate, nonché la volontà e la capacità di sfruttare tali risorse in maniera intelligente a fini personali o nell’interesse della collettività, costituiscono fattori cruciali per rafforzare la competitività dell’Europa e migliorare le capacità d’inserimento professionali” (3). Sono passati quasi vent’anni dall’urgenza rappresentata dal Memorandum e l’educazione permanente – a garanzia della promozione di una cittadinanza attiva e dell’occupabilità – ancora oggi cerca di attivare le risorse culturali utili alla società delle conoscenza, in cui sono gli stessi individui a fare da protagonisti. “Ciò che conta maggiormente è la capacità umana di creare e usare le conoscenze in maniera efficace ed intelligente, su basi in costante evoluzione. Per sfruttare al meglio tale capacità le persone devono essere disposte a gestire il proprio destino e capaci di farlo – in breve, diventare cittadini attivi. L’istruzione e formazione lungo tutto l’arco della vita rappresentano il modo migliore per affrontare la sfida del cambiamento”.