Giuseppe Zingarelli
La squadra rossonera guidata dal Presidente Antonio Fesce, 57 anni fa, salì sul Gargano. Nel pullman anche lo storico “Capitano” del Foggia, Gianni Pirazzini, che ricorda quella visita al Santo frate.
Nel pomeriggio dell’8 marzo 1968, un pullman giunse a San Giovanni Rotondo. Si fermò davanti al piazzale del convento di Santa Maria delle Grazie. A bordo vi era una squadra di calcio. Il Foggia. Non era la prima volta che i rossoneri si recavano sul Gargano per far visita a Padre Pio da Pietrelcina. Era già accaduto nel 1960, in occasione della promozione dei dauni dalla Serie C alla B, nel 1962, con la riconquista della Serie B e il 29 maggio 1964, quando Oronzo Pugliese, in vista dell’incontro con la Pro Patria del presidente Candiani, allenata da Giuseppe Lupi, decise di portate in ritiro i suoi ragazzi nel paese garganico. Dopo aver svolto una seduta di allenamento, accompagnati anche dal sindaco Francesco Morcaldi, all’epoca “Primo Cittadino” di San Giovanni Rotondo, il “vulcanico” allenatore di Turi e la squadra rossonera al completo, si recarono da Padre Pio. Lo “stigmatizzato”, si intrattenne con atleti e dirigenti interessandosi amabilmente con loro del mondo del calcio, le cui vicende gli venivano spesso riferite dai confratelli del convento. Al colloquio seguì un momento di preghiera. Il futuro santo impartì alla squadra una solenne benedizione. Poi, rivolgendosi ancora alla comitiva, consigliò ai calciatori la lealtà sportiva e la serena gioia cristiana nella pratica dello sport. Congedandosi, Padre Pio disse: “Il Signore benedica voi, le vostre famiglie e le vostre fatiche”. In quel campionato 1963-64, il Foggia era in corsa per la promozione in Serie A. Il 31 maggio 1964, al termine della gara contro la Pro Patria i rossoneri prevalsero nettamente. Inflissero una sonora sconfitta alla formazione lombarda, scesa in campo allo “Zaccheria” con la tradizionale casacca a strisce orizzontali biancocelesti. Foggia-Pro Patria terminò con il risultato di 4 a 1. Al termine di quella stagione cadetta, il 21 giugno 1964, per la prima volta nella sua storia, il Foggia approdò in Serie A, insieme al Cagliari di Gigi Riva ed al Varese, allenato da Ettore Puricelli. Nella stagione calcistica 1967-68, il Foggia disputava il campionato di Serie B. Un ragazzo nativo di Cotignola, un piccolo paese del ravennate, era stato da poco acquistato dalla società dauna, allenata all’epoca da Serefino Montanari, ex calciatore di Padova, Spal e Lazio. Quel ragazzo non aveva neanche 23 anni. Quel pomeriggio dell’8 marzo 1968,  in quel pullman che saliva a San Giovanni Rotondo,  c ‘era anche lui. Quel ragazzo divenne la bandiera storica del Foggia Calcio. In 13 stagioni disputate consecutivamente in maglia rossonera, il “libero” ravennate detiene un record ineguagliabile. È l’unico calciatore nella storia del Club ad aver collezionato qualcosa come 424 presenze. Parliamo di Gianni Pirazzini. Il “Capitano”.
Sono trascorsi 57 anni da quel famoso 8 marzo in cui vi recaste a far visita a Padre Pio. Cosa ricorda di quel pomeriggio?
“Tutto. Dopo quasi 60 anni, sembra ieri. Il ricordo di quel pomeriggio è più vivo che nella mia mente. È proprio vero, il tempo vola. In campionato, la domenica successiva, il 10 marzo 1968, dovevamo affrontare allo “Zaccheria” la Reggiana. La partita di andata giocata allo stadio “Mirabello” di Reggio Emilia, terminò in parità, 1a1. Ricordo il risultato perchè quella domenica il calcio italiano visse la drammatica scomparsa di un campione. Era il 15 ottobre 1967. L’ ala destra del Torino, Gigi Meroni, perse la vita tragicamente, investito da un auto mentre rientrava a casa subito dopo aver giocato la gara contro la Sampdoria. Noi, quella stessa domenica, ironia della sorte, giocavamo contro la Reggiana, squadra che per tradizione ha la maglia della stesso colore di quella del “Toro”. Questo particolare mi è sempre rimasto impresso nella mente. In quella stagione calcistica 1967-68, il nostro allenatore era Serafino Montanari. Con Montanari realizzammo un filotto di 24 risultati utili e soltanto per un punto, alla fine di quel campionato, non andammo in Serie A.  Accompagnati dal dottor Antonio Fesce, dal dottor Frisotti e dal dottor Iannantuoni, all’epoca rispettivamente, Presidente, dirigente e segretario del club, partimmo alla volta di San Giovanni Rotondo. Il Presidente Fesce decise di andare.da Padre Pio. In pullman, durante il viaggio, si respirava un’atmosfera particolare. Eravamo concentrati sulla partita che ci attendeva la domenica, contro la Reggiana. Quando giungemmo nelle vicinanze del paese,  iniziò a regnare in pullman un religioso silenzio. Eravamo emozionati. Io non ero mai stato da Padre Pio. Ne avevo sentito parlare molte volte, come anche tutti i miei compagni di squadra.
Era la prima volta che mi recavo da lui. Giunti a San Giovanni Rotondo, come tanti pellegrini, percorremmo il piazzale del convento ed entrammo in Chiesa, per poi essere ricevuti da Padre Pio”.
● Quanto tempo vi tratteneste con il frate di Pietrelcina?
“Circa 15 minuti, non di più. Un confratello spingeva la carrozzella sulla quale era seduto Padre Pio. Furono momenti indimenticabili. Rivedo davanti agli occhi quella immagine di Padre Pio in carrozzella, sofferente, e quando lo racconto, a distanza di tanto tempo, mi emoziono. Sinceramente, sono momenti che ti restano scolpiti nell’anima”.
● Cosa vi disse Padre Pio?
“Quando lui entrò nella sala “San Francesco” si percepiva che vi era una presenza di santità. Si avvertiva che, diciamo così, non era un frate come come tanti. Noi, calciatori e dirigenti, eravamo tutti in silenzio. Ciascuno di noi, in realtà, gli stava affidando qualche suo problema, o mentalmente, recitando una preghiera, gli stava chiedendo qualcosa, e lui, sono sicuro, la stava ascoltando. Ricordo che il nostro compianto Presidente, Antonio Fesce, chiese ad un confratello del santo frate se vi era la possibilità di poter scattare una fotografia alla squadra insieme a Padre Pio, ma il confratello rispose che ciò non era possibile. Nella sua proverbiale semplicità, Padre Pio è come se ci augurò le migliori fortune per il prosieguo della nostra carriera e del campionato in corso. Poi ci invitò tutti a pregare. Insieme a noi, erano presenti all’interno della sala San Francesco anche altre persone, e insieme a loro, iniziammo a pregare tutti insieme. Successivamente, Padre Pio ci impartì la sua paterna benedizione.  Vivemmo istanti che è difficile descrivere a parole. Quando uscimmo dal convento, quella benedizione la portammo sempre con noi. La sentimmo sempre viva nel nostro cuore. Come fosse un qualcosa di particolarmente  prezioso, qualcosa da custodire gelosamente. Direi che quella benedizione di Padre Pio è come se  accompagnò ciascuno di noi. Non solo nel corso della nostra carriera agonistica, ma anche e soprattutto nella vita, quando dopo aver appeso le scarpette al fatidico chiodo, per noi calciatori arriva il momento in cui molte cose cambiano e si pongono altre scelte, in cui devi decidere altre direzioni di vita. Per molti calciatori, quando arriva il momento di smettere di giocare, non è un momento facile da vivere.
Quando si recò con il Foggia da Padre Pio, era da poco tempo un calciatore del Foggia.
“Si. Avevo 23 anni. Avevo disputato già sei stagioni con il Ravenna, in Serie C, realizzando tre reti ie totaluzzanzo circa 97 presenze in maglia giallorossa. Poi, nel 1967, il Foggia si interessò a me e mi acquistò. Giunsi a Foggia. Era un ambiente nuovo. Non sapevo come mi sarei ambientato. Ero cosciente del fatto che se la dirigenza aveva apprezzato le mie qualità tecniche ed aveva puntato su di me, dovevo ripagare chi mi aveva dato fiducia. Per cui ero giunto in Puglia con tante buone intenzioni. Dovevo lavorare bene per la società e per i tofosi. Sapevo che Foggia era ed è una piazza che al calcio tiene moltissimo. In ogni caso, ovunque fossi andato a giocare, il posto in squadra te lo devi meritare, perchè al posto in squadra ci arrivi soltanto lavorando con impegno, professionalità ed abnegazione”.
Pensava di rimanere al Foggia così a lungo?
“Assolutamente no. Anzi le dirò di più. Pensavo di restare in rossonero solo qualche anno. Come si dice in gergo, pensavo di restare a Foggia il tempo necessario per maturare esperienza, e chissà, poi approdare altrove, magari in qualche società del nord. Poi le cose andarono diversamente. Seppi che alcune squadre erano interessate a me. All’epoca noi non avevamo i procuratori. Oggi molte cose sono cambiate nel calcio. La cessione o l’acquisto di calciatore lo decidevano le società, proprietarie dei nostri cartellini. Presidenti e dirigenti, all’eppca, disponevano “in toto” del nostro futuro. Noi calciatori non sapevamo nulla di eventuali interessamenti da parte di altre società o di eventuali trattative che ci riguardavano. I dirigenti, spesso,non ci dicevano nulla se non quando una trattativa veniva definita. Cosi era anche per le conferme”.
● Nel corso della sua lunga permanenza in rossonero, il suo rapporto con la società è stato sempre un rapporto sereno?
“Diciamo che a Foggia mi sono ambientato bene. Non sempre però tutto è stato facile. Ci sono stati anche momenti non semplici, in cui fui anche contestato dalla tifoseria. Pensavo di andar via da Foggia. In alcuni momenti ho pensato che il mio tempo in rossonero fosse giunto al termine. Nella carriera di un calciatore ci sono sempre dei momenti di difficoltà, di contrasto, in cui puoi non essere compreso al meglio, come vorresti che fosse. Ci sono anche partite in cui non riesci ad esprimerti al meglio, anche se un calciatore professionista scende sempre in campo per dare il meglio di sè. A volte qualche partita si sbaglia, a volte non riesci ad interpretare la gara come vorresti. Però è anche vero che quando un calciatore lavora con impegno e serietà, la società e i tifosi lo notano. Diciamo che divergenze, contrasti e tensioni, pur affiorate nel corso degli anni della mia permanenza a Foggia in qualità di calciatore, sono sempre state affrontare ed appianate con garbo e stile, e questo è stato davvero importante per me. Il mio rapporto  con la città, i tifosi e la società è stato sempre improntato alla correttezza ed al rispetto reciproco.
● Foggia. Una città che le vuole bene. Dopo aver disputato10 campionati di Serie B e tre di A, il Presidente Fesce la chiamò in società come direttore sportivo.  
“Sì. fui direttore sportivo anche con la presidenza Lioce.
Al tempo in cui giocava l’ attaccamento alla maglia era davvero così importante?
“Indubbiamente. Quando giocavo, molti calciatori tenevano a continuare le loro carriere indossando la maglia della squadra in cui avevano militato nella precedente stagione agonistica. La maglia veniva anche prima di molte altre cose. Per certi aspetti, anche prima dei soldi. Oggi molte cose sono cambiate. Alla fine degli anni ’60 e per tutto il corso degli anni ’70, per noi calciatori la maglia è stata qualcosa di veramente importante. È stato proprio quello il periodo in cui molti campionissimi  legarono il proprio nome ad una sola squadra. Penso a Gigi Riva, Rivera, Mazzola, Facchetti, Antognoni, Furino, Mascetti, Franco e Giuseppe Baresi, Bulgarelli, Roversi, Juliano, Pulici, giusto per citare alcuni campioni. Ripercorrendo il recente passato, mi vengono in mente Francesco Totti, Alessandro Del Piero, Paolo Maldini. Campioni che si sono legati ad una squadra a vita. Esempi virtuosi di attaccamento e di grande riconoscenza verso la società che li ha lanciati. Oggi sono consapevole di quanto sia stato importante per me voler bene alla maglia del Foggia. A Foggia, poi, ho anche conosciuto mia moglie, Ci siamo sposati. Ho messo su famiglia. Tre figli. Ritengo la famiglia davvero importante nella vita di una persona. Ti dà stimoli, forza, coraggio, soprattutto nelle situazioni non semplici della vita, e quelle ci sono per tutti. Foggia è stata la scelta di vita che ha cambiato la mia vita. Sono rimasto a Foggia. La considero ormai da tempo la mia città adottiva. Una città che mi ha dato tanto. Anzi, mi ha dato tutto.
● Un giorno il Presidente Fesce le comunicò di averla ceduta al Varese.
“È vero. Stavo per preparare le valigie. Il Foggia all’epoca era allenato da Tommaso Maestrelli. Un allenatore al quale devo moltissimo. Con lui fummo promossi in serie A. Quando il Presidente Fesce comunicò a Maestrelli la mia cessione il tecnico gli rispose che avrebbe dovuto trovarsi un altro allenatore, perchè se avesse ceduto me se ne andava anche lui. Fesce allora rinunciò a cedermi, strappò il contratto, e avvisò il Varese che sarei rimasto un calciatore del Foggia. Quell’anno in Serie A con Maestrelli in panchina fummo la squadra rivelazione del campionato.
● Chi ricorda in particolare in quella squadra?
Tutti. Era un gruppo fantastico. Da Trentini a Crespan, da Montefusco a Saltutti, da Bigon a Re Cecconi, da Majoli a Colla. È stato un ottimo Foggia. Un gruppo che meritava certamente di restare in A.
● Nessuno come lei nella storia del club dauno. 424 presenze in rossonero. Un record imbattibile.
“Quando giunsi a Foggia, mi creda, non avrei mai pensato di raggiungere questo risultato. Non ci ho mai pesato. Ho sempre pensato a dare il massimo in campo.
● Qual è stato il calciatore italiano che maggiormente l’ha impressionata? 
“Nel periodo in cui giocavo, Gianni Rivera incarnava l’immagine dell’uomo squadra.  Aveva una visione di gioco completa. Il gioco del Milan passava per le sue magistrali giocate. Rivera è stato un uomo squadra di prim’ordine, un regista che ha esaltato il gioco e il collettivo del Milan”.
● Qual’ è stato l’ attaccante più forte al tempo in cui giocava?
“Quattro su tutti. Gigi Riva. Roberto Bettega, Roberto Boninsegna e Paolo Rossi. Quattro attaccanti eccezionali, fortissimi. Quando vennero a giocare a Foggia erano tutti dei sorvegliati speciali. Pablito nel dicembre del 77, contro di noi, con la maglia del Lanerossi Vicenza, ci fece impazzire. Unico attaccante al mondo a segnare tre reti al Brasile nella stessa partita. Basta questo per dire che attaccante è stato. La città di Foggia, qualche tempo fa, gli ha dedicato un murales gigante mosaicizzato per ricordarlo”.
● La rete più bella che lei ricorda, realizzata da un attaccante contro il Foggia?
“Non ho dubbi. Quella realizzata da Roberto Boninsegna contro di noi a Milano. Era il 2 maggio 1971. A San Siro perdemmo 5 a 0, l’Inter vinse il suo undicesimo scudetto noi dovevamo salvarci. La salvezza, per una piccola squadra provinciale come il Foggia, rappresentava per noi uno scudetto. Noi quell’anno retrocedemmo in B dopo aver disputato un ottimo girone di andata, ma non meritavamo la B. Ricordo il cross di Facchetti con il sinistro, gli andai incontro per cercare di respingere il traversone. Il pallone giunse in area, mi voltai e vidi la strepitosa rovesciata acrobatica di Boninsegna che con il sinistro, di potenza, centrò l’incrocio dei pali alla sinistra di Trentini. Un gesto atletico strepitoso, di rara bellezza. Fu una delle reti più belle della storia dell’Inter. Il gol più bello realizzato da Boninsegna nella sua prolifica carriera. Trentini non potè nulla per opporsi a quella stratosferica  prodezza. Fu una esecuzione perfetta. Nessun portiere al mondo avrebbe parato quel ‘missile’ scagliato verso la porta ad una velicità terrificante”.
●  Qualche tempo dopo restituì il gol all’Inter.
“Beh, non fu certo la prodezza di Bonimba. Diciamo che a San Siro, contro i nerazzurri, pareggiammo una partita che si era messa subito in salita per noi. Era il 13 febbraio 1977. Peppino Pavone, un grande amico ed ex calciatore del Foggia, ci fece subito gol. Erano trascorsi neanche due minuti dall’inizia della gara. In seguito Mazzola, Facchetti, Oriali, e Anastasi tentarono di tutto per chiudere i conti già nel primo tempo e chiudere definitivamente il match. Il nostro merito fu quello di crederci. Riuscimmo a difenderci egregiamente con ordine, senza andare in affanno. Mancavano pochi minuti al termine dell’incontro e la pareggiammo.  Depositai con tocco di puatto destro il pallone alle spalle dell’ottimo portiere nerazzuro, all’epoca era Ivano Bordon, tra l’altro anche ex portere della Nazionale.
● Segnò una rete anche al Milan di Gianni Rivera.  
‘Si. Giocammo contro il Milan in casa. Era in pieno periodo prenatalizio, mancavano pochi giorni al Natale. Nel 1976. Mi ero spinto in avanti, di solito mi proiettavo in area di rigore avversaria appena potevo, arpionai il pallone e di destro riuscii a battere Enrico Albertosi da distanza ravvicinata. Vincemmo 2 a 1. Albertosi fu uno dei migliori portieri della mia epoca insieme a Dino Zoff.
● La Nazionale?
Mi sarebbe piaciuto giocarci. Magari solo qualche partita. Però va bene così.
In precedenza parlava del Torino di Gigi Meroni. Lei affrontò anche il Torino di Gigi Radice che vinse lo scudetto nel 1976. Un suo gol consegnò la vittoria al Foggia contro i granata.
“Si. Era il Torino dei ‘Gemelli del gol’, Pulici e Graziani. Un Torino che non aveva certo bisogno di presentazioni. Il 23 ottobre 1977 riuscimmo a batterlo. Una palla in area, ci misi il piede e riuscii a battere il “giaguaro”, Luciano Castellini, un altro che in porta non scherzava. Quando era in giornata di grazia volava da un palo all’altro della porta e ti parava tutto.
● A proposito di prodezze. Quel Foggia-Livorno del 1969, le ricorda qualcosa?
“Fu il gol più bello della mia carriera. Ho giocato nel ruolo di libero, non sono un attaccante  anche se agli inizi della mia carriera ero partito da attaccante. Considerando anche le presenze con il Ravenna, tra Seria A, B e C, ho giocato circa 517 partite, realizzando 8 reti in Serie A e 2 reti in B con il Foggia, e 3 reti con il Ravenna in C. Quel gol contro il Livorno lo misi a segno il 12 gennaio 1969 con una spettacolare rovesciata acrobatica, eseguito con le spalle rivolte alla porta. Fu un bel gol”.
● Quale partita della Nazionale italiana ricorda con più emozione?
“La finale del 1982 in Spagna e la semifinale Italia-Germania 4 a 3, giocata in Messico nel 1970. Entrambe disputate contro i tedeschi”.
● Con uno dei protagonisti assoluti di quella fantastica partita consegnata alla storia dei Mondiali, Italia Germania 4 a 3, fu il migliore in campo in quel match indimenticabile, lei ci giocò insieme nel Foggia.
“Ho avuto l’onore di conoscere e giocare con Angelo Domenghini. Un campione e un caro amico. Non posso che ritenermi fortunato. Domenghini contribuì notevolmente alla salvezza del Foggia. Vinse scudetti, Coppa Campioni e Coppa Intercontinentale con l’Inter. Poi quel fantastico scudetto a Cagliari. Irripetibile”.
● Lei ha giocato anche con un calciatore che vinse tutto anche nel Milan.  
“Si. Giovanni Lodetti. Un grande professionista. Una persona, semplice, sempre pronta alla battuta. Un campione anche lui. Disputò due campionati in Serie B con il Foggia e con lui, nel 1976, risalimmo di nuovo in Serie A. Poi andò a giocare con il Novara. Lo ricordo sempre con molto affetto”.
● Quando nel 1968 vi recaste da Padre Pio, come terminò la partita che giocaste la domenica successiva contro la Reggiana?
“Perdemmo in casa per 2 a 1. La Reggiana era comunque una compagine che aveva in squadra giocatori di tutto rispetto, ricordo Bruno Giorgi, Mazzanti, Negrisolo, Fanello. Andammo in vantaggio. Segnò Roberto Rolla. Poi gli emiliani pareggiarono e vinsero con un gol realizzato a pochi minuti dal termine”.
● Quando nel 1973 il Foggia fu promosso in Serie A, lei si recò a piedi, in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, per ringraziare Padre Pio.
“Sì. Lo ricordo bene. Quell’anno fummo promossi in Serie A. Partimmo  a piedi da Foggia insieme al portiere Raffaele Trentini, all’allenatore Lauro Toneatto, a Gigi Del Neri, Giancarlo Morrone, Novilio Bruschini e Giorgio Braglia, e salimmo a San Giovanni Rotondo. Poi scendendo nella cripta del convento di Santa Maria delle Grazie ed andammo a ringraziate Padre Pio. Ricordo anche il signor Vincenzo Di Bari, che ci segui portando le bevande alloggiate nel suo Ape tre ruote. Lo stesso pellegrinaggio lo ripetemmo anche nel 1976, quando in campionato centrammo la permanenza in Serie A. In quella occasione ci recammo di nuovo a piedi a San Giovanni Rotondo e ringraziammo nuovamente il frate “stigmatizzato”. Eravamo io, Bruschini, Balestri, Lorenzetti e Turella.
● Forse proprio Padre Pio ha voluto che lei si trasferisse da Ravenna a Foggia, nel territorio nel quale lui operò per 52 anni ininterrotti.
“Me lo sono chiesto tante volte. E chissà che forse sia andata proprio così”.
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Gianni Pirazzini, nel corso della sua lunga carriera, 19 anni, è stato seguito da molte società. La Juventus, l’Inter, la Fiorentina, Il Napoli, il Milan, il Varese, l’Hellas Verona, il Bologna e il Rimini. Il 10 marzo 1968, dopo la visita a Padre Pio, nonostante la sconfitta interna del Foggia contro la Reggiana, (1 a 2), in quella stessa gara, Roberto Rolla siglò una rete spettacolare, una rovesciata acrobatica di sinistro, con il pallone che si insaccò all’ incrocio dei pali della porta difesa dal portiere della Reggiana, Giancarlo Bertini II. Una rete, quella di Rolla, che si inserisce di diritto tra le 5 reti più belle della storia del calcio rossonero, a partire dal  13 settembre 1964, giorno dell’esordio assoluto del Foggia in Serie A. Alla rete messa a segno da Gianni Pirazzini e da Roberto Rolla, si aggiungono altre tre reti. La spettacolare rete di Cosimo Vittorio Nocera, realizzata in Foggia-Inter 3 a 2, giocata il 31 gennaio 1965. La sfera terminò la sua traiettoria all’incrocio dei pali della porta difesa dal portiere interista, Rosario Di Vincenzo. Nonchè altre due spettacolari reti siglate dal centravanti Stanislao Bozzi. La prima, realizzata allo stadio Luigi Ferraris di Genova il 9 novembre 1980 in Sampdoria-Foggia 0 a 1, con una rovesciata acrobatica terminata all’incrocio dei pali alla destra della porta difesa dal portiere doriano, Claudio Garella. La seconda, realizzata a Foggia dallo stesso Bozzi, in Foggia-LRVicenza, 2 a1, una rete realizzata  l’11 gennaio 1981 con un’altra spettacolare rovesciata acrobatica effettuata di spalle alla porta, che insaccò imparabilmente la sfera alle spalle del portiere veneto, Massimo Bianchi.