Cultori di discipline classiche: imbelli studiosi?

Ferdinando Longobardi

L’idea che spesso si ha dei cultori delle discipline classiche e umanistiche è, purtroppo, quella di studiosi imbelli, di sognanti vagheggiatori di un mondo perduto e di romantici un po’ attardati. È chiaro che occorre innanzi tutto sradicare questa immagine errata e fuorviante. A suggerirla al prossimo è, forse, anche quell’inconfessato complesso di inferiorità provato talvolta da chi, di fronte alla sconcertante evoluzione tecnologica e dei costumi della società contemporanea, si sente rappresentante di valori e contenuti percepiti all’esterno come vecchi o antiquati. A questo proposito è interessante sottolineare che, in questi anni di lotta per la rivalutazione della cultura che è alle radici della nostra civiltà, la difficoltà più grande è stata creata dal pessimismo, dallo scetticismo e dallo scoraggiamento di molti tra i cultori di tali discipline. Questo atteggiamento è frutto di un colossale equivoco, un equivoco culturale ma, direi, anzitutto linguistico. Si suppone cioè che il contrario di “nuovo” sia “antico”; e poiché la società contemporanea pare incessantemente protesa verso il “nuovo”, gli umanisti dovrebbero per forza restarne ai margini, umana zavorra passatista che può solo frenare il radioso avvento del futuro. Ma in questa argomentazione c’è un errore: il contrario di “nuovo” è vecchio”. E il “vecchio” non è altro che il “nuovo” invecchiato, il “nuovo” di trent’anni fa. Quello che di veramente, radicalmente, nuovo i ragazzi incontrano entrando nelle scuole non è affatto il computer, e non sono nemmeno i tanto in voga strumenti multimediali: molti li conoscono già, e spesso in forme più moderne di quelle che propongono i laboratori scolastici. Invece gli allievi assistono nella loro aula davvero per la prima volta a qualcosa che per essi è totalmente nuovo solo quando qualcuno gli parla della nascita della filosofia, del sorgere dello stato, dell’affermarsi del diritto e della religione, della creazione del pensiero razionale e della poesia e della letteratura occidentali; ed essi assistono a tutto ciò attraverso quei classici che, diciamolo, sono vecchi solo per chi è invecchiato senza averli mai compresi. L’idea che si possa passare dal mito al logos, da una concezione teocentrica ad una antropocentrica della verità, si affaccia infatti per la prima volta nelle loro menti, poiché per essi nessuno ha ancora studiato i sillogismi, o le leggi della geometria, o le aporie del pensiero. Forse è venuto il momento in cui coloro che hanno la consapevolezza, la responsabilità e il compito di trasmettere questa tradizione, che non è in alcun modo equiparabile alle altre (e non solo perché è la nostra), debbano cominciare ad andare in giro a testa alta. Certo, perché questo sia possibile occorre rivalutare e reinterpretare adeguatamente l’antico. E magari saperlo usare per spazzare via il vecchio, creando così il nuovo.