Castel San Giorgio: il culto di San Rocco
Anna Maria Noia
Domenica 11 luglio scorso a Castel S. Giorgio il comitato festa “S. Rocco” (2010) con l’ausilio dello storico locale autodidatta della zona, l’umile operaio e fotografo Gaetano Izzo ed insieme ad altre personalità culturali della Valle dell’Irno oltre che di Castel S. Giorgio stessa (tra cui il cultore di tradizioni locali nonché di storia del territorio Gino Noia, di Mercato S. Severino; Francesco Di Pace; Mario Guerrasio, altro studioso locale ed altri ancora), in concomitanza con l’amministrazione comunale (adeguatamente rappresentata) e col parroco della chiesa di S. Maria delle Grazie don Graziano Cerulli, ha inteso ricordare il santo protettore Rocco – tra l’altro patrono di Mercato S. Severino, ovvero dell’antico Stato (Terra) di Sanseverino, l’Universitas; di Siano e di altre cittadine – facendo scoprire all’uopo una lapide ad hoc da parte del succitato don Graziano alla presenza di politici sangiorgesi “di oggi e di ieri” e soprattutto del sindaco attuale: il medico Franco Longanella. Oltre a ciò, nell’ambito di una kermesse particolare, una cerimonia pubblica avvenuta presso il vicolo Casa Izzo dopo la quale e dopo le parole di Noia, di Di Pace, di Longanella, del parroco don Cerulli e di altri, è stata celebrata una solenne Messa, è stato approntato dallo stesso Izzo un volumetto, un opuscolo con la “scoperta” dell’editto – importantissimo per la storia di tali nostre località – col quale il sindaco di Castel S. Giorgio il 7 luglio 1792 (il culto verso S. Rocco è però precedente, già dopo la peste del 1656) – mediante un apposito carteggio – “supplicava” l’allora arcivescovo di Salerno don Giulio Pignatelli al fine di dichiarare il santo di Montpellier morto per la peste come patrono dell’Universitas. Il carteggio con le epistole, alcune delle quali in latino e per di più con le antiche abbreviazioni in uso a quei tempi, è stato riportato sul quadernetto dallo stesso solerte e preparato Gaetano Izzo che non ha mancato di scattare le foto durante la manifestazione. Essa manifestazione è stata preceduta da una processione con la statua-simulacro del santo e animata da tante autorità in mezzo alla folla accorsa da molte parti per gremire la piazzetta antistante il vico Izzo, nonché animata dal valido e simpatico coro “Orizzonti nuovi”, sempre della chiesa di S. Maria delle Grazie. Lo stesso Izzo è stato ricordato per la sua umile ed auto appresa passione per la storia nelle parole di alcuni intervenuti, succedutisi sul palco prima che a prendere la parola fossero don Graziano, Gino Noia, Di Pace e infine il sindaco Franco Longanella. Questi ultimi hanno snocciolato poche parole ma sentite ed interessanti prima che si scoprisse e che si benedicesse la targa commemorativa sotto una bella edicola in ceramica proprio dedicata nel ‘900 al patrono Rocco, ivi raffigurato con l’inseparabile cane col pane in bocca [il cui padrone si chiamava Gottardo, e a cui l’animale “rubava” il pane per portarlo al santo in modo da sfamarlo] e con la mano indicante i bubboni della peste che lo colse dopo che egli si era prodigato per le popolazioni colpite dal flagello. S. Rocco è inoltre rappresentato con la cappasanta, la conchiglia simbolo assieme al bastone (vincastro) dei pellegrini che si reca(va)no a Santiago de Compostela (S. Giacomo maggiore, “figlio del tuono”) del quale si celebra quest’anno il giubileo essendo il 25 luglio (suo dies natalis) una domenica. I pellegrini – consentiteci questo breve excursus – si dividevano in tre categorie: gli Jacopei – appunto in cammino verso la Galizia, verso Santiago – i Palmieri, dei quali si conserva ancora il cognome e che andavano a Gerusalemme (le palme sono all’origine dell’etimo…); i Romei, verso Roma. Tre infatti erano le mete per il giubileo dell’anno santo 1300, istituito da Bonifacio VIII – papa non tanto caro al nostro sommo Dante Alighieri, in quanto il poeta fu da questo personaggio costretto all’esilio. Tornando a noi e alla speciale e particolare serata, tra le cose culturali espresse da Noia in pochissimo tempo, si è evinto che il culto per S. Rocco è di molto precedente al 1656: già dalla visita di Giovanni Boccaccio nelle nostre zone (peste del 1348) si aveva in tali zone “sentore” di un culto simile, mutuato da altri culti precedenti come per esempio da quello per S. Sebastiano e prima ancora dalla cultualità di S. Michele Arcangelo, entrambi “patroni” dei Bizantini; in particolare S. Sebastiano è in qualche modo vicino al culto per S. Rocco in quanto il suo martirio, l’essere sottoposto a lancio di frecce, fece sì che le piaghe e le ferite lasciate dai dardi sembrassero bubboni pestilenziali. Noia ha ricordato poi che il termine “S. Giorgio” deriva dal greco antico “Georges”, ovvero: “coltivazione della terra” (“geo”); tra le numerose altre tradizioni ormai sempre più dimenticate, neglette anche nelle nostre zone riguardo alla fede in S. Rocco ricordiamo il “pane di S. Rocco” e la “polpetta a forma di pane con in mezzo la soppressata” entrambe a Carifi, frazione di S. Severino, e la campanella simbolo degli appestati oltre alla “fiaschella”, una zucca incavata. Non meno importante ed applaudito del Noia è stato Francesco Di Pace, che ha tracciato un amarcord di “odori” e “sapori” sentiti e vagheggiati nel passato (un passato ancora recente, attuale, non lontano…) da parte di chi come lui viveva in Castel S. Giorgio. Di Pace ha poi dissertato – in breve – della “storia dei luoghi come antidoto per disperdere il disagio”, auspicando una “rivalorizzazione” della stessa cittadina. Fondamentale e calzante, puntuale, infine il discorso di Longanella, gentiluomo di altri tempi, che ha attuato un collegamento non ardito ma anzi quanto mai attuale tra la peste come epidemia e la “peste” dei giorni nostri, che è la fame – sicuramente – ma anche la disoccupazione, problema di oggi scottante e che egli ha dichiarato di voler arginare – sono sue parole – già dai suoi primi mesi di attività amministrativa. Per concludere, di seguito diamo versione e parola alla vita – descritta in breve – del santo venerato il 16 agosto. S. Rocco, considerato il patrono degli appestati, è invocato anche come il taumaturgo protettore da ogni genere di malattia epidemica. Il santo nacque a Montpellier, in Francia, da genitori benestanti di origini principesche intorno al 1330. Rimasto orfano donò tutta l’eredità familiare per il bene dei poveri, e seguendo le orme francescane iniziò a pellegrinare (peregrinare) dapprima percorrendo il “cammino di Compostela” e soffermandosi sulla tomba di S. Giacomo (maggiore), “tuono di Dio”, poi partì – seguendo la via Francigena – per il pellegrinaggio sulla tomba di S. Pietro a Roma. Giunto in Italia, flagellata in quegli anni dalla grave epidemia di peste, si dedicò alla cura degli ammalati senza paura di contagio guarendo molti in modo inspiegabilmente miracoloso, fino a quando anch’egli non contrasse il morbo nella città di Piacenza e fu mandato in quarantena nei boschi vicini. Durante la quarantena gli fu compagno di sventura solo un cane che ogni giorno gli procurava un tozzo di pane (tolto, preso “in prestito” dalla tavola del padrone Gottardo). La piaga sulla sua gamba, uno dei segni sempre presenti nell’iconografia del santo, ricorda infatti la malattia. Anche il bordone – bastone del pellegrino – la conchiglia di S. Giacomo, il cappello a larghe falde, la gabbana (mantello per ripararsi durante il viaggio dagli elementi atmosferici) ed il fedele cane randagio sono elementi che hanno contraddistinto l’iconografia del santo francese. Dopo la guarigione, sulla via del ritorno in patria a Montpellier, fu arrestato ed accusato – non riconosciuto – di essere una spia. Secondo la tradizione morì – probabilmente – nel carcere di Voghera, in provincia di Pavia, il 16 agosto di un anno compreso tra il 1376 e il 1379. La propagazione del culto per S. Rocco fu immediata, sostituendosi in molte zone ai protettori S. Michele e S. Sebastiano. Nella pala cinquecentesca del SS. Salvatore a Marigliano (Aiello di Castel S. Giorgio) sono rappresentati i due santi taumaturgici Sebastiano e Rocco nella gloria della Madonna del Loreto. Sotto, sullo sgabello, si ravviva il passaggio dal culto di S. Sebastiano a quello di S. Rocco, mentre la cultura popolare della Valle del Sarno continua a rispettare il “martirio” di S. Sebastiano: non si macellano animali, ci si priva della carne ai pasti e non si lavorano le carni stesse per tutto l’anno nel giorno della settimana (lunedì, martedì…) in cui è caduta la festa del santo il 20 gennaio: ad esempio, se un anno il 20 gennaio è di lunedì per tutti i lunedì dell’anno avvengono tali “accortezze”, allo stesso modo succede di martedì se il 20 gennaio cade di martedì e così via. Il santo delle (e con le) frecce è ancora invocato nell’Europa del Nord come il taumaturgo che intercede in favore degli appestati, proprio perché le ferite dei dardi sono paragonate ai segni (bubboni) lasciati dal morbo. Molti ricordano il miracolo avvenuto a Pavia, quando la peste cessò il giorno dopo che il vescovo di Pavia Damiano (santo) ottenne da Roma la reliquia del martire a cui dedicherà poi anche un altare: con tale commistione tra i due culti, quello più antico di S. Sebastiano e quello più “recente” nei confronti di S. Rocco chiudiamo qui questo articolo antropologico ma anche molto cronachistico, redatto per salvaguardare le antiche consuetudini delle nostre ricchissime e anche molto “depredate” zone dense di popolare religiosità.
Un ottimo lavoro.Una storica serata domenicale di un luglio sangiorgese di altri tempi.La piazza ,il centro del Paese era presente in tutta la sua tradizionale testimonianza.